Dopo diciotto pagine di “Bau-Sète!” (Rizzoli, 1988) dell’amatissimo Luigi Meneghello – romanzo che scivola a ritroso tra i giorni del secondo dopoguerra e le loro increspature di speranze, baluginii di palingenesi, ombre cilestrine, avventure quasi d’amore, cenere di un evo, alba di un’epoca – l’unico desiderio che avevo era quello di sospenderne la lettura. Gongolavo infatti nel bel mezzo di una gloriosa epifania quando, sicuro che il libro m’avesse già elargito la prima abbondante razione di magistero estetico su cui riflettere, a chiarore declinante, nel lunatico abbandono dopo l’estasi, avevo deciso di smettere, stabilendo tra me e me, ancora una volta, quanto una centellinata felicità sia, per noi lettori terreni, l’unica forma esperibile di quella perfetta. E l’ho pensato perché a pagina 18 Meneghello aveva già trionfato, precisamente quando scriveva di non esser sicuro che la nascita di un nuovo bambino sia un evento da festeggiare, perché la possibilità che il nuovo uomo possa essere più vile, sleale e fifone della media sono una su due, quindi, “mentre con una mano si traccia nell’aria la metà di un applauso, con l’altra sarebbe giusto battersi l’anca.” Eccolo – ho esultato – l’antidoto perfetto per questi anni di impetuosa divinizzazione di se stessi e dell’Infante Infallibile e Pantocratore! E disubbidendomi, ho proseguito a leggere. Ma per fortuna. Perché poco dopo, a proposito di antidoti, m’aspettavano tre fotografie premonitrici che si adattano con sorprendente esattezza sartoriale all’odierna mistagogia pentastelluta e al corredo di Sassaiole Giuste che l’animoso culto reca in dote. Ma andiamo con ordine. Prima foto: 1945, Vicenza, sul cantone di Galla, lungo il corso. Capannello di gente che circonda un uomo in ginocchio, cui vengono rivolti comandi e frasi di scherno. Accanto ha un secchio di acqua sporca e con una spazzola strofina il muro, cancellando lugubri frasacce. È il direttore filo-fascista del giornale cittadino. “Me lo ricordavo a un’adunata”, racconta Meneghello, “che teneva un’allocuzione. C’era, in lui, qualcosa di teatrale, di didattico, di squilibrato”. Adesso era lì, carponi, che menava obbediente la spazzola. “Eppure non mi sembrava sufficiente, questo cancellare…” osserva lo scrittore, che rievoca in seguito un’accusa ai propri danni, sommaria e feroce, da parte di un maestro elementare, singolare personaggio “ubriaco di caffelatte e ai margini del giornalismo locale”, che al termine della guerra ne bollò l’atteggiamento con una zacchera di “fascismo antifascista” – vicenda che Meneghello sintetizza così: “Conobbi il qualunquismo, piega importante della mente italiana.” Seconda foto: quella di Mussolini giustiziato in piazzale Loreto. “La guardai di sfuggita, con un misto d’attrazione e repulsione. Era necessario disfarsi del fascismo, ma mi tornò in mente quella coi miliziani in divisa, e al centro uno con un palo in mano e la testa di un partigiano infilata sul palo. La testa aveva gli occhi aperti.” Ora, nello stesso luogo, quel Duce dalle incredibili proprietà elettromagnetiche (“Dio ti manda / come manda la Luce”) era stato – dice Meneghello – linciato: lì spenzolava a testa in giù il cadavere di un uomo anziano che protendeva le braccia come in un tuffo, lì si era consumata la cruda cerimonia, la macabra “ora della verità semplificata”. E aggiunge: “Quel fantoccio capovolto, non diventava troppo facilmente il nostro capro espiatorio?” Terza foto: Valdastico. Trambusto a Cogollo. La guerra è finita, la gente assale il Municipio e cattura una segretaria. Viene rapata sul balcone da un Figaro giustiziere che poi ne getta le ciocche alla furente mischia sottostante; quindi, dal medesimo balcone, ne annuncia l’esecuzione pubblica, ma che non avrà luogo grazie all’irruzione di Tempesta, “l’amico Renzo”, che spara in aria. “Oggi non sembra necessario domandarsi perché non volevamo che le gente linciasse la gente,” scrive Meneghello, “eppure, allora, io avrei esitato a riconoscere che non credevo nella giustizia popolare, nell’innata capacità del popolo di linciare la gente giusta.” Solo insegnando in Inghilterra, il partigiano azionista Meneghello, interprete di un umanesimo resistenziale ostile alla pretesa di condannare il nemico a un’ingiustizia che, destinata a noi, mai accetteremmo, scoprirà il sostantivo e verbo “mob”, monosillabo lapidario e definitivo. Ed estraneo a ogni semplificazione, conclude: “Non saprò mai cosa sono veramente l’errore, il fanatismo, o la giustizia”.