“Non solo Proust crea personaggi privi di profondità, ma li giudica con un atteggiamento da bacchettone nerd che non riesco a sopportare. Pagine su pagine per condannare la figlia di Vinteuil e per condannare Odette, l’immorale, la vanesia stupida Odette, e neanche una pagina per condannare quel coglione di Swann che il poverino vuole possedere. Ero stato avvertito ma non pensavo che un tanto acclamato capolavoro potesse essere tanto contorto. Ogni frase si trascina per tre pagine. E a qualcuno piace perfino!”
Pura invidia. Questo è quel che si prova, per un solo e inconfessabile momento, a fine giornata, seduti sul letto, in crisi di significato e in limine mortis, quando, dopo sette-ore-sette di esposizione ininterrotta ai briosi giri di lama della Grande Affettatrice Universale (amazon le chiama “recensioni dei lettori”) si tirano le fila della propria vita intellettuale. Una vita, va da sé, inane e introversa, afflitta da maestose inadeguatezze percepite, con quella maledetta vocina sempre lì a incombere, lì a guaire sulle poche letture, sulle proprie riflessioni mai ritenute davvero all’altezza... Una vita infiacchita dalla giurisprudenza della cautela e imbrigliata nell’intellettualmente corretto. Una vita che io in quel momento – dopo sette-ore-sette – non potevo che confrontare. Di qua i miei sottili distinguo, di là “bacchettone nerd”. Di qua le mie prudenze lessicali, di là “quel coglione di Swann”. Non era ora di liberarsi? Fantasticavo e mi dicevo: vuoi mettere saper trattare (su, dillo) quel noiosetto di Proust con un bel: “Idee buone ma straviste”? O il coraggio di sconfessare il serpentino verbigerare di certi tomoni universitari prendendo per il bavero Gente di Dublino e proclamando: “Faccio fatica a capire perché venga considerato un capolavoro”? Vuoi mettere l’impertinenza valorosa e ghiandolare di chiedersi in pubblico: “Ma dai, ma è un libro, questo?!” E perché non ammettere, abbracciando l’anonimo “Utente Amazon” unendosi alla sua recensione, che “non ce ne può fregare di meno di rivivere le sensazioni o i fremiti virginali di un tizio francese vissuto cento anni fa”, indi spronarlo, il tizietto fransé, e ammonirlo a due voci con un sonante: “Un autore dovrebbe andare alla ricerca della verità, non del tempo perduto!” Per un attimo, seduto su quel letto, dopo sette-ore-sette, ho pensato: da domani sarò anch’io così. Da domani consulterò questa piattaforma dei commenti letterari come un I Ching dell’orientamento rassicurante. Da domani questa farmacopea della semplificazione diventerà la mia razione proteica quotidiana, perché lì, su amazon, tra i commenti disinvolti, è tutto semplice, ilare e gioiosamente sciagurato, lì siamo tutti meno grigi e più iridescenti, meno tediosi e più shocking, che ce ne facciamo delle tortuosità di un ragionamento? La verità dice sì o dice no. La verità non sottilizza. La verità è brutale come una bisettrice.
Pura invidia, sì. Perché per quanto corazzati e razionali, dopo sette-ore-sette sull’otto volante della spensieratezza opinionistica, intontiti dal fascino aerostatico della spensieratezza e ipnotizzati dal suo potere antigravitazionale, si arriva davvero a provarne un po’. Ma andiamo con ordine. La mia indagine ha attraversato tre stadi. Il primo è stato quello della buona volontà: spogliandomi di qualunque tentazione cinica ho cercato di osservare il fenomeno dall’altezza del fenomeno; si trattava, dopotutto, di indagare l’essere umano contemporaneo, specie di quadrumane semievoluto, metà anthropos e metà smartphonos. Per orientare la navigazione mi ripetevo le parole con cui De Sanctis tratteggiava Machiavelli: “La tolleranza che comprende e assolve, dello scienziato che non sente odio verso la materia che studia”. Tutto bello, tutto giusto. Senonché, la materia che studiavo, mentre la studiavo, mi sfidava. Inspiravo, espiravo: sei riuscito a restar calmo anche quando, digitando in rete “Guerra e pace”, il primo risultato si è rivelato Fabri Fibra e non Lev Tolstoj, e ora che fai, cedi? Immobile davanti al pc mi facevo forza, mi insignivo di martirio e pensavo a Sugar Ray Leonard, che il 16 settembre 1981 continuò a suonarsele con Thomas Hearns (battendolo) nonostante un distacco della retina. Allora non ci ho più pensato e via, mi sono tuffato di testa tra i commenti dei lettori, nella forma degenere e nella forma eterogenea. Qualche esempio? Opinioni su Anna Karenina. “Un romanzo dalle ottime possibilità, a parer mio non adeguatamente sfruttate”. “Il capitolo dedicato alla vita in campagna e al momento della falciatura dell’erba… ci sarei andata io armata di una falce per tagliare tutti quei campi. Sopravvalutato!” Sull’Ulisse di Joyce. “Polpettone! Sarà il fatto che non sono molto filosofo, sarà il fatto che mi piacciono le storie movimentate… La tentazione di usare questo volume come fermaporta era forte.” Su L’uomo senza qualità. “In tutta l’opera l’influenza del pensiero di Friedrich Nietzsche è amplissima, tuttavia è un’influenza abbastanza superficiale se non errata in quanto Musil fa parte di quella schiera di intellettuali del Novecento che ha capito poco o nulla del pensatore”. Su L’Idiota di Dostoevskij. “Non mi è piaciuto, conversazioni sconclusionate e frasi smozzicate”.
Non ero preparato a tanta spontaneità e sono stato travolto dalla marea delle voci, varie ma tutte accomunate da una certa boria del “parlar chiaro” e da una vocazione sempre dichiarata all’onestà-tà-tà. “In tutta onestà se fosse un’edizione cartacea non varrebbe la carta su cui è scritto, questo Ragione e sentimento”. “Bellino, ma in tutta onestà non posso definire Padri e figli di Turgenev un capolavoro della letteratura russa”. “Onestamente, chi ha detto che Verga era un grande scrittore?” Ed erano talmente vocati alla chiarezza, questi moschettieri del commento spigliato, che leggere le loro opinioni significava anche figurarsi dei gesti: una mano che sfarfallava nell’aria ad assodare impaziente, o un pugno che si apriva e si chiudeva a ripetizione per mungere il Vero Punto della questione. Come procedere? L’unica possibilità era sistematizzare. Era fare appello alla ragione per difendermi e controllare una materia altrimenti inafferrabile. Dunque – secondo stadio – ho ricondotto i commentatori ad alcune categorie.
Prima categoria: gli Iconoclasti. Vantano la farina, il sacco, e il loro pane croccante di sprezzatura. Impillaccherano la Gioconda ma non sono banali teppisti, solo assertori di verità a servizio dell’antifronzolismo, riscattatori di un popolo tarpato da anni di tedio riflessivo. Recensione a Umiliati e offesi: “Di una tristezza infinta, con questi uomini sempre piangenti e nullafacenti che sembra di essere a Uomini & Donne”. (L’Iconoclasta è spiccio e non teme il riferimento basso, anzi, vi si crogiola). Su Ragione e sentimento: “Mamma mia che strazio! Romanzo di basso livello. A chi piace il genere sarebbe da consigliare piuttosto gli Harmony”. (L’Iconoclasta prende a testate anche le convenzioni sintattiche.) L’Educazione sentimentale di Flaubert, del resto, è “un classico da dimenticare, pedante, zeppo di nomi che rendono caotica la narrazione”, ma occhio, perché l’Iconoclasta non si lascia imbambolare nemmeno da Madame Bovary: “Non va avanti, ci sono modi migliori per impiegare il proprio tempo, piuttosto di leggerlo preferisco guardare il soffitto”. I Miserabili vengono derubricati a ricetta della disperazione: “Allungando il brodo, la minestra diventa sciapa”. E Gogol barcolla già al primo round: “Le anime morte avrebbe dovuto essere una trilogia, per fortuna l’autore si è fermato prima con le sue pippe morali”. Il Fu Mattia Pascal viene passato per le lame di un lapidario: “Senza nulla a pretendere. Mendico di vivacità. Lettura a tempo perso!” I Malavoglia: “Scrittura orrenda, una storia di paese”. Miss Dalloway? “Un vomito di parole”. Cent’anni di solitudine: “Una cosa scritta per bambini venuta male”.
Seconda categoria: gli Avversativi. Quelli del “sarà anche così, ma”, che con sprezzo di qualunque auctoritas affermano l’ineluttabilità della propria opinione. Non appartengono alla categoria degli Iconoclasti solo perché il loro primo interesse non è distruggere, ma affermare se stessi attraverso il proprio giudizio. Incurante di ogni valore letterario universale, l’Avversativo arriva a scardassare Dostoevskij come fosse un Dario Franceschini qualunque (il ministro, in veste di scrittore, non brilla per consensi). Sui Malavoglia: “Capisco il verismo e tutto quanto, ma a rischio di sembrare superficiale dico che l'ho trovato noioso.” Sui Miserabili: “Ho letto solo alcune pagine, ma non mi piace neanche la traduzione. Non conosco il testo in originale”. Quando lo conosce, le canta chiare. “Potrei non capire nulla di letteratura, ma la maggior parte delle storie sono senza senso,” sragiona un Avversativo mettendo alle corde il Decamerone. Virginia Wolf? “Capisco che possa essere ritenuta una grande scrittrice, ma non per me”. Anna Karenina: “Sicuramente è bellissimo, ma è talmente lungo che prende lo sconforto di andare avanti.” Neppure Il Gattopardo la passa liscia: “Io sono siciliana e non ho capito questo libro. Sarò ignorante ma è così.”
Terza categoria: i Naif. Trombettano un’innocente opinione e ci lasciano spaesati. “Dopo aver letto le novelle più famose del Verga, alcune molto simpatiche, ho fatto fatica a finire I Malavoglia”. I Miserabili vengono esecrati in quanto “scritti in un italiano datato” e il Decamerone “non è molto bello, ma una cosa che mi interessa e non mi dispiace” – confessa un Naif – “è che l’antichità e la storia mi piacciono”. Su Dostoevskij: “Questa pazza letteratura russa! Sembra di leggere un cubo di Rubik! Alla fine ami tutti e vorresti parlare con ogni personaggio, sei triste per non poterlo fare. È così lontana quella dannata Russia e poi credo che quelli siano tutti morti e ti devi spostare anche nel tempo!”
Quarta categoria: i Melodrammatici. Se un libro non è loro piaciuto, si struggono. Ma ci restituiscono un’epopea. “Lo iniziai a 16 anni,” scrive un Melodrammatico apicale, “ma lo abbandonai dopo un centinaio di pagine perché lo trovai noioso... Non sopportando l'idea di avere un Verga abbandonato nella mia libreria, uno dei miei propositi fu quello di riprenderlo. «Magari, essendo più grande, lo capirei meglio»... Macché. Confermo ciò che pensavo al tempo”.
Quinta categoria: gli Spossati. Non dispongono di un ego edificabile, ma agricolo, e denunciano l’infertilità delle proprie zolle con mood crepuscolare. Sull’Ulisse di Joyce: “C’è poco da fare, è pesante…” Grandi speranze: “Ci abbiam provato in due e abbiamo desistito”. Delitto e castigo: “Il vero significato è difficilissimo, si afferra un po’ solo grazie ai commenti esterni che ho trovato ad esempio su internet”. Ossia – ho pensato – il luogo meno propizio, se affrontato senza strumenti. Di certo il più ambiguo, in cui cresce l’ortica del cortocircuito merce/cultura che anche Amazon alimenta: dopo l’acquisto di un libro invia al cliente una mail del genere “il libro soddisfa le tue aspettative?”, quindi pubblica una accanto all’altra la recensione più critica e quella più favorevole al medesimo libro, in una forma raffreddata e differita di “confronto” per interposto lettore dagli esiti potenzialmente grotteschi – a volte quella più critica è “Delitto e castigo, storiella, niente di che”, quella più favorevole è “Delitto e castigo, imballaggio perfetto, tempi rispettati”.
Rabbrividendo, mi sono scollegato e consegnato al terzo stadio: il rientro nella realtà. Quindi, l’amaro riesame. Ciò che continuava a stupirmi ripensando alla maggior parte dei commenti letti non era tanto la sentenza singola, quanto il metodo generale, cioè lo spensierato azzeramento di ogni prospettiva. Il passante, promosso a recensore, si cala sulla materia e la giudica. Lo fa così, senza mezzi termini, per ciò che gli appare, avulsa da ogni contesto e sfidata dalla sola supremazia dell’istante. Con un esito: il percepirsi sullo stesso livello della materia, se la materia è Dickens, significa posare la lapide definitiva sul “so di non sapere” (infatti su amazon si sa sempre, la si sa lunga, ma soprattutto la si deve sempre sapere, in un’orgia di trionfo, di possesso d’una verità in ogni caso). Così ho pensato a “Herzog”. Nel romanzo di Saul Bellow, a un certo punto, il protagonista si scontra coi limiti della propria elaborazione del mondo, espressione di una cultura di idee. E come rimedia? Tace. Si libera di sé e ascolta la signora Tuttle spazzare il vialetto. Noi no. Noi siamo sempre in performance straparlante, sempre in assetto da opinione-verdetto nel nome di “quel che proviamo” e della sacralità delle nostre “senzazzioni”. Ma cosa nasconde questa tragicomica e isterica frontalità? Questo trattare Proust da pari e non sentirsi mai impari? Siamo già oltre l’uno-vale-uno e ormai nello zero-vale-tutto?
Quel che resta è l’amarezza di un viaggio dentro le nostre inadeguatezze non accettate. O forse – peggio – nemmeno contemplate.