Domenica 7 luglio, nel primo pomeriggio, Radiotre ha trasmesso la replica di una puntata di novembre del programma “L’isola deserta” curato da Chiara Valerio, e che da quando ho conosciuto seguo morbosamente, interessandomi moltissimo di cosa alcuni personaggi considerino vitale per la loro sopravvivenza. Il gioco consiste nell’individuare lo stretto necessario per una lunghissima permanenza in solitudine circondata dal mare ai quattro lati. Posto che una simile eventualità mi atterrisce e atterrisce chiunque sia sano di mente (anche se ultimamente va molto di moda il disprezzo verso l’umanità in favore dei canidi, oppure una forma narcisistica e particolarmente insopportabile di nichilismo misantropoide che si dovrebbe aver superato già al secondo quadrimestre di terza liceo, quando va scemando anche il bisogno di istoriare il diario con le sentenze veritative di Jim Morrison) è molto utile imporsi la domanda: cosa è davvero necessario per me? Cosa costituisce il mio bagaglio essenziale? Il gioco, peraltro, offre la grande possibilità di non impelagarsi in questioni noiosamente pratiche, ossia di non dover includere, nello striminzito novero, lo spazzolino, i tappi per le orecchie (ah, lo stormire assordante delle palme!), la protezione cinquanta, lo smartphone a energia eolica o la sigaretta elettronica. Perché il gioco prevede esclusivamente bagagli immateriali: letterari, musicali, cinematografici.
Nella puntata di cui vorrei parlare è andata in onda un’intervista a Piera Degli Esposti, regina del teatro che nella vita avrebbe voluto “essere regina solo per un momento”. Ma questo lei l’ha detto solo alla fine, quando già io ero conquistato e dunque assai predisposto a comprendere la magnifica debolezza di una donna tanto splendida, fragile come la sua stessa voce, che avanzava ipotizzando e ipotizzando tremolava, non tremolando mai né il suo pensiero né la consapevolezza delle sua venialissime colpe, ammesse con candore commovente. Perché sì, ammetteva, Piera Degli Esposti: di aver avuto, anche spesso, l’umana tentazione del lusso; di averlo desiderato, magari brevemente, ma certo irresistibilmente; e di sentire la necessità di un maggiordomo, cioè di un Jeeves. Ma mi ha inchiodato soprattutto quando ha confessato il vero grande bisogno di tutta la sua vita. Quel bisogno che, insieme a un film di Hitchcock – forse “La donna che visse due volte”, ma potrei sbagliarmi, a un certo punto era in lizza con “Intrigo internazionale” e Chiara Valerio la incalzava – e Francesco Gabbani in persona (anche qui lei, oltre alla simpatia prettamente canzonettara, ribadiva il suo bisogno di un uomo che le risolvesse alcune questioni meramente pratiche tipiche di un’isola deserta), le faceva dire che, per tutta la vita, lei non aveva mai abbandonato i libri di P.G. Wodehouse e che, pertanto, li avrebbe voluti sull’isola. Anzi, diceva che non aveva potuto e voluto abbandonarli, e per ragioni del tutto misteriose. “Chissà perché un certo autore ci dà tutto quel nutrimento,” confessava, “eppure mi è successo così. Ci sono autori che uno legge, poi quelli depositano, se ne stanno lì, uno li riprende,” precisava, “questo succede a tutti”, ma – proseguiva – con Wodehouse no, con Wodehouse la faccenda era più seria, il nesso più necessitante e la relazione psicologica più profonda, al punto che (e qui non solo la amavo, ma la veneravo, mi gettavo in ginocchio, degeneravo nell’idolatria) ha confessato di aver spesso fatto certe cose un po’ frettolosamente, compreso imparare un copione, per correre a ficcarsi presto tra le lenzuola, la sera, con un libro di Wodehouse. E ne conclamava la centralità nella sua vita non solo di lettrice: Wodehouse era stato una ragione di gioia intima quotidiana, la chiave per sopportare la vita.
Quanto candore, quanta eleganza, quanta verità dietro queste parole? E quanto amore per la letteratura, quanto amore vero e non cattedratico, non contundente, praticato ogni giorno e a ogni istante, proprio mentre noi imbecilli facevamo altro, per esempio berci interviste di tromboni che citavano Proust senza averlo mai nemmeno aperto. Ecco, in quel momento Piera Degli Esposti era tra le lenzuola a vivere una vita bellissima, in compagnia del suo bisogno di Wodehouse. In quel momento Piera Degli Esposti allungava la vita della letteratura e della grande storia che esiste tra la letteratura universale e ogni singolo lettore: una storia di amore infinito, una questione di sopravvivenza. Una storia di bellezza senza uguali. Una festa galante piena di parole eppure silenziosa, che si balla sempre a occhi chiusi.