La prima volta che ho letto Futbòl di Osvaldo Soriano era il 1993. Avevo diciassette anni e me lo consigliò un amico. A esser sinceri mi lasciò indifferente, non tanto perché del calcio non mi interessava niente o perché a quel tempo stravedevo per scrittori sperimentali e incomprensibili, quanto per un difetto che a uno scrittore non perdono mai: la slealtà; o meglio, quella che a me, stupidamente, sembrava la slealtà. In quel libro, infatti, non sentivo l’odore dell’onestà narrativa. Non prendiamoci in giro, pensavo: l’eroe sinistrato, custode della sua stracciona e orgogliosa diversità, tutto integrità morale e visione poetica, alle prese col deuteragonismo del campetto di calcio periferico mentre suda, impreca e spera, dov’è nella vita di tutti i giorni? Non esisteva.
Passa qualche anno. 14 settembre 1997. All’epoca mi mantenevo vendendo panini al bar dello stadio Mario Rigamonti di Brescia. Nei ritagli del mio tempo facevo e disfacevo romanzi impubblicabili, il venerdì e il sabato ero cameriere in un’equivoca pizzeria e la domenica sgambavo tra le gradinate con una cassetta a tracolla. Ricordo perfettamente il mio debutto: Brescia-Sampdoria, risultato finale 3-3, tripletta di Dario Hübner. Bravo, sì – ma chi diavolo era? Lessi una sua intervista del dopo partita, parole suonavano così: “Sono contento, ma non mi esalto. Il peggio arriverà quando non segnerò. Sono arrivato in serie A all’età di trent’anni anche per colpa mia, perché volevo arrivarci col Cesena per fare un regalo al presidente che ha sempre creduto in me. Ma non ce l’ho fatta. I miei goal contano solo se serviranno al Brescia per salvarsi.” La sua foto: naso a pera, occhi a fessura, pizzetto. Il goleador che arrivava da Cesena e vantava un curriculum di campi sventurati come Pievigina, Pergocrema e Fano, assomigliava molto a un collega di mio padre, collega che faceva il magazziniere e si chiamava Gallina – mai saputo il nome, solo il cognome. Mio padre lo stimava ma ci litigava, e a casa diceva che voleva fare sempre di testa sua. Anche Dario Hübner, la testa, l’ha sempre tenuta bassa tra le spalle. Ingobbito come un gregario in fuga e puntando le porte avversarie con furia da derby oratoriale, trasudava in tutto e per tutto la fatica austera del campo minore. Quel che in quel momento non mi sarei potevo immaginare è che io, di quel personaggio che non era un personaggio, mi sarei innamorato perdutamente. Costui, nel giro di pochi anni, si sarebbe preso il lusso di essere capocannoniere sia in serie A (al pari con Trezeguet), sia in B, sia in C1, vale a dire ovunque abbia giocato. Il pubblico di provincia lo ha sempre amato, affamato di epica e di umanità. E Dario Hübner sembrava lì per quello. Mentre smistavo panini infuriando in lungo e in largo gli spalti, lui sudava esattamente come me, imperversando nella breve prateria di una serie A perduta l’anno dopo averla conquistata; poi col Brescia ci furono due anni di B, quindi ancora la A – i su e giù della vita, mentre io mi arrampicavo su gradinate che d’inverno erano sciabolate da un vento di vetro. Lui non era l’Imperatore o il Mago, non era il Matador o la Furia ceca. Era il Bisonte. Animale crespo, ottuso e goffo, della famiglia dei bovidi. Ed ecco che, in quelle domeniche in cui il mio mito senza mitologia sgomitava alle prese con efficienti difese che tentavano di neutralizzarlo, a me tornava in mente nientemeno che Futbòl, il libro di Soriano letto al liceo, che raccontava l’onesto e arcigno Obdulio Varela, i campi infami di Rio Cuarto de Cordoba, e Arìstides Reynoso che fischiettava canzoni contadine quando prendeva la palla… Non solo, ma per contagio poetico, laggiù, in panchina, l’allenatore Paolo Ferrario non era più Paolo Ferrario, ma Orlando el Sucio. Incredibile a dirsi: Dario Hübner, centravanti taciturno e ispido, irrompeva nel mio cuore e per soprammercato mi dava anche una lezione di letteratura e immaginario. Lui, con le sue sigarette fumate tra il primo e il secondo tempo; lui che in turné americana col Milan (l’occasione della vita) giocò maluccio, forse rintronato dall’aereo di cui si diceva avesse paura; lui che non avrebbe mai fatto un minuto di nazionale in vita sua; lui che da giovane faceva il fabbro; lui che sopra un grappino un giorno disse: “A correre da soli si finisce stupidi”; lui che è stato quel che voleva essere e che tutti noi volevamo che fosse: un bisonte – razza in estinzione. Apparteneva a quel genere di giocatori che sono più di se stessi e ti impongono un’identità, perché a conti fatti, o stai con chi vince, o stai con chi ci prova. È stato bellissimo, l’abbiamo sognato?
Ormai son passati quasi vent’anni. Scrivere è diventato il mio mestiere e non ci avrei scommesso. Sindrome da provinciale, certo, ma credevo che toccasse solo a chi fosse “eletto”. In realtà non si tratta di elezione, ma di sudore e di campetti. Di Fano e di Pievigina. Di fare senza ambire, senza aspettarsi niente. Il libro di Soriano non l’ho più riletto. Ho paura. Paura di trovare un capitolo intitolato “Dario, il Bisonte” e di sapere che l’unico calciatore per cui ho palpitato in vita mia non sia mai esistito. Ma soprattutto, paura di sapere che, se è esistito, è stato molto – troppo – lontano da me.