“Romantiche puttane ottocentesche”. Li apostrofava così, certi scrittori, lo scrittore Christopher Isherwood. L’anno era il 1938, e questo il modo con cui l’autore di Addio a Berlino dava il benvenuto a Hollywood a presuntuosetti del calibro di Aldous Huxley, che contrattualizzato dalla MGM a 1800 dollari a settimana per il trattamento di Madame Curie, vi era giunto dandosi arie di superiorità, animato dall’irritante svagatezza di chi si creda prestato a qualcosa ma si senta appartenere a uno status superiore. “Vi credete troppo in su per il cinema? Be’, non crediatelo. È il cinema ad essere troppo in su per voi. Non abbiamo bisogno di romantici. Ci servono tecnici, piuttosto!” sbottò Isherwood sul finale di quella severissima filippica. Come sia andata a finire tra i due non è documentato nemmeno dal libro che riporta il gustoso fatterello – Un mondo di cospiratori di Mordecai Richler – ma al di là degli sganassoni che dovrebbero esser volati, la morale della favola è: peccato mortale, ridimensionare lo scrittore. E ancor più terribile sperare che si ridimensioni da sé. Perché non lo farà. E non lo farà perché non se lo può permettere. Basta osservare cosa accade ogni volta che uno scrittore ha la possibilità di parlare o, peggio, scrivere di sé: esagera. Per carità, è normale che chi conduca una vita rivelatasi grama dopo tante promesse (promesse che nessuno ha fatto a nessuno, ma si sa: vivere per raccontarsela) la faccia poi più grande di quello che è; normale e addirittura fisiologico che chi, dopo gli arresti domiciliari cui l’ha ridotto un’opera, nel momento in cui metta il naso fuori dalla porta (più vecchio di due anni, con le vertebre mal ridotte, stordito dalla missione riuscita sempre e solo a metà, e amareggiato dal conto in banca) si mostri incline a una certa auto-mitizzazione perequativa. Perché al netto di incipriate romanticherie o di lividi maledettismi, è questo il ritratto più veritiero dello scrittore: un sognatore ringhiante, un vanesio aggressivo, una bestia offesa che brama rivincita, un soldato sfiancato dalla battaglia quotidiana che conduce nell’anonimato di una reclusione che gli altri vedono poetica – perché ancor più romantici e ottocenteschi, alla fine, sono i lettori. Ma la vita di uno scrittore non è la sua biografia (che se va bene annovera qualche premiuzzo e una parentesi, raramente graffa, di gloria) e i fatti della sua biografia non sono le note biografiche a sua firma (che se va male, cioè quasi sempre, contengono vaniloquenti eccedenze, arrotondamenti per eccesso, barocche distorsioni). Forse, sul calendario della Letteratura, si potrebbe datare l’inizio dell’autofiction il giorno in cui il primo editore ha chiesto a uno scrittore di buttar giù le note biografiche per un libro, note che lo scrittore ha fatto cantare solo dopo averle arricchite di quelli che chiameremmo affettuosamente “abbellimenti operistici”. Certo, il nesso tra scrittore e menzogna è annoso, risaputo, con tratti addirittura fotogenici. Moravia, alla domanda “che mestiere fai?”, rispondeva “scrivo balle” – resta il dubbio che non si riferisse alla sua non documentata attività di compilatore di note biografiche. Ma bisogna guardare con tenerezza a queste fanciullesche manipolazioni, a queste ingenue cromature. Dopotutto (e qui mi prendo le mie responsabilità: io stesso sono stato, in passato, autore di una nota biografica di cui non vado fiero) siamo tutti smaniosi di un’epica che non c’è, di considerazione che non si ha, abituati a chiedere “chi è il più bello del reame?” a uno specchio crepato. Breat Easton Ellis, in Lunar Park, lo dice chiaro e tondo: il lavoro di uno scrittore è trasformare la vita in un vortice di menzogne, con l’abbellimento al centro di tutto. “Serve a stare a galla,” precisa. Ed è vero. Da un punto di vista fisico, la vita di uno scrittore è statica, e per combattere questa condizione è necessario costruire quotidianamente un mondo alternativo e creare un altro sé, dando anche alla propria opera – spesso ignota e oscura più di quel che si vorrebbe – una luce specifica. Non so se si possa annoverare, questo, tra i guasti del cosiddetto Post Moderno (ne parlavano tutti, poi adesso più nessuno: è finito a mia insaputa? siamo in un Pre Qualcosa che ignoro?) ma da quando non esiste più la società letteraria, soppiantata dal social network, lo scrittore non plasma se stesso in funzione della propria opera, ma le proprie note biografiche in funzione di se stesso. È questo solipsismo ossessionante che conduce a certi tragicomici eccessi? È esistita, prima di questa, epoca in cui le note biografiche degli scrittori contenessero tante vacuità, tanta superficialità, tanto svagato ammiccamento? Pescando tra bandelle, bio di Twitter o di Facebook, si approda al rafforzamento di questa sensazione: lo scrittore, contemporaneo alla stesura delle proprie note biografiche, le scrive in realtà ex tumulo, e – si direbbe – alterato da speranze psicotrope. La nota biografica è infatti una variante brioso/vanitosa del necrologio in vita, si tratta proprio di una specie di death-in-progress, perché l’autore che si ritrae in poche parole ha solo quello in mente: immaginarsi alla fine, ritratto in pochi tocchi ed eternato in una forma che lo consacri campione di quell’ineluttabile, franca autoconsapevolezza che un domani farà ammettere a tutti: “Era un grande” – sempre meno nota informativa, dunque, la nota biografica, e sempre più performance. Quanto ai risultati di questo maquillage tanatoestetico, c’è livello e livello: si va dai più disastrosi esiti, alle memorabili, lapidarie e gombrowicziane sprezzature alla Aldo Busi. Come non ricordare, infatti: “Nato a Montichiari, dove mantiene domicilio fiscale”? Oppure: “Attualmente non ha ancora deciso se e dove fermarsi a vivere”. O ancora: “Fa il supplente nelle scuole del bresciano, l’interprete volante per una ditta di maglieria femminile, l’autista per una di cucine, componibili” (sublimi anche le virgole: nel suo caso le note non erano semplice paratesto, ma peri-testo, che si faceva iper-testo, che si faceva ultra-testo). Tenuto conto che, quanto a esiti non commendevoli, sono i piccoli editori che danno maggiori soddisfazioni, anche nelle bandelle dei grandi si possono scovare perle inattese. Si tenterà, qui, un’incompleta classificazione di questo catalogo di venialità. Tutti i virgolettati sono originali.
I Geolocalizzati. Coloro che ostentano il dato geografico. Esistono molteplici sfumature, ma è evidente che tutti mirano a rendere affascinante il proprio tran tran logistico. Prima regola: si ostenta il luogo di nascita (c’è chi è “nato”, c’è chi è “originario”) solo se portatore della dote più importante, cioè quel po’ di esotismo spiccio; bene il piccolo paese, ma per cavarne un effetto suggestivo deve essere molto piccolo (“originario di Usellus, piccolo paese dell’entroterra sardo”; “nasce a Pace di Mela e ivi risiede praticando la podistica, sua passione”). Seconda regola: se si è portatori di sventura anagrafica, si è nati banalmente a Paullo e non si intravedono possibilità romantiche, potrebbe essere utile riferirsi a un altro luogo più rimarchevole e snocciolare con disinvoltura: “Vive tra Paullo e Palm Beach”. Spulciando tra le più baldanzose note biografiche di questa categoria si trovano: un melodrammatico e furioso “nata a Napoli, terra di mare e di fuoco”; un palliativo “nasce in provincia di Brescia ma cresce nella campagne toscane”; un rivendicativo “genovese d’adozione”; un comico “nato a Urbino, vive a Urbania”; un epico “nato alle falde del Vesuvio, di fronte all’isola di Capri, laureato con 110 e lode”; un quasi senechiano “nata a Roma, dove è tornata a vivere dopo molti viaggi”; e un distaccato “nato a Grosseto, per il momento vive a Milano”. Esiste poi – sottogruppo onirico – la variante spirituale. “Vive tra Milano e Siena, in una piccola casa di campagna”. Ma il vertice più sublime lo tocca: “Divide il suo tempo tra Milano e l’Umbria”, laddove lo scrittore non divide se stesso, entità fisica, ma il proprio tempo, entità astratta; e mentre Milano è Milano, l’Umbria potrebbe essere tutto – quel che conta sono l’evocazione e la soma poetica di cui ci affibbia il carico: immaginarlo trafelato nella chiassosa metropoli o intento a ridipingere staccionate, tra siepi, tramonti e vecchie vanghe. (Come non amare, infine, la vampa lirica che ha fatto scrivere: “Nata da una vecchia famiglia genovese, è cresciuta tra gli ulivi toscani”?)
I picchiatelli. Non che lo siano apertamente, e nemmeno presi singolarmente. Ma dopo aver spulciato decine e decine di note biografiche e averle lette una di seguito all’altra, l’effetto è lo stesso di quando, in treno o in spiaggia, vi attacca bottone un tizio innocuo e buffo, però patologicamente logorroico, che non vede l’ora di narrarvi la propria esistenza, sapientemente ritoccata. Il picchiatello è sempre instancabile, protagonista di memorabili gesta, afferra la vita per il cavallo dei pantaloni e la fa roteare in aria; nei casi limite è portatore di Verità. Certo, se è nei paraggi o incappate nella sua bandella, non resterete a lungo all’oscuro della sua esemplare Bildung. “Dopo una laurea in economia e 12 anni di consulenza d’azienda, intuisce che il tempo è per lui una ricchezza irrinunciabile e si ritira a vivere sulle Dolomiti. Nel taschino preferisce avere un paio di ore libere che il portafoglio gonfio. Scrive storie di ultimi” (che però non incontra mai, essendosi ritirato a vivere laddove giungono solo gli abbienti). “La fotografia, la parola e tutto ciò che è espressione, poesia e fuoco, mi attrae”. Notevole anche: “A Lucca conduce un’adolescenza molto attiva: studia, dipinge, lavora nelle fiere, nei ristoranti, dai contadini e dai falegnami. A soli vent’anni lascia la famiglia per trasferirsi a Milano. Da allora ha fatto il cameriere, il ballerino, il modello…” Ma esistono anche picchiatelli più assertivi, spesso bizzarramente eterocliti: “Alle sue multiformi attività ha sempre affiancato l’amore per l’arte, il collezionismo, la gastronomia.” Oppure: “Vive col marito e coi tre figli, e si occupa con successo di un’azienda di apistica da vent’anni”. Impagabile il picchiatello califanesco: “La sua scuola è stata la vita”. Non male il picchiatello curriculare: “È stata bagnina, animatrice in colonia, cassiera, baby sitter, segretaria.” (Divertente un picchiatello indaffarato che “recita, scrive libri e copioni, tiene laboratori e seminari, costruisce oggetti e pupazzi”.)
I vanitosi. Categoria affollatissima, quasi banale dirlo. In generale si va dalle comiche vanterie Trip Advisor (“considerato tra i migliori scrittori di racconti”; “ritenuto unanimemente una delle voci più originali”; “giudicato il miglior giallista della sua generazione” – ma giuro che non l’avevo mai sentito nominare, data di nascita non indicata) a fregi più scabri come “scrittrice, poetessa, donna di cultura”. Dai più sofisticati “ha pubblicato una plaquette di poesia e una silloge di racconti”, a (libro non recentissimo, ed ecco che il vanitoso impugna la lira) “voltosi alla letteratura fin da giovane, dopo una breve esperienza di pittore”. Infine ci sono i “writer”, gli “scrittori Feltrinelli” e i vanitosi generici del tipo “ha partecipato a diverse iniziative culturali”; oppure, con forbitezza da ufficio pubblico: “Numerosi i premi letterari conferitigli”. (Sottocategoria: i cordiali di genio. Semisconosciuti fino ai primi del Duemila – constatazione puramente cronologica e passibile di smentita – spiccano per giustapposizioni brillanti come “tifa Inter, coltiva pomodori”, per constatazioni comico esistenziali del genere “nasce nel 1976, ed è già molto”, o per smagati sentori di caducità: “Scrive, ma domani chissà”.)
Fuori da ogni categoria, le due migliori note biografiche lette ad oggi sono quella di Tommaso Giartosio su Twitter – “Scrivo. Ma molto piano” – e quella di Joe R. Lansdale, che con civettuola controcivetteria annota: “I write stuff”. Ovvero: scrivo cose.
E Amen.