“Mia madre è la causa di tutti i mali della mia vita. Un mostro e una mostruosità. Mi odiò prima ancora che io nascessi.” Sapeva essere lapidario, il chimico Honoré Balssa, lui che chimico non era, ma notaio, e che raccontò l’umanità come fosse una tavola degli elementi. Creatore di uno smisurato universo letterario, creò anche il proprio cognome e a trent’anni lo impreziosì con la sillaba “de”, il cui vezzo – che chiamava diritto – difese a testa alta contro chiunque lo mettesse in discussione, con un’ostinazione così torva da far supporre che su quel diesis aristocratico gravasse più di un compito. “Il mio predicato nobiliare, verificato in base a documenti ufficiali, non ha minor validità di quello di un Montaigne o di un Montesquieu”. Così, da un giorno all’altro, lo scrittore che non temeva rivali ma forse, un poco, l’anagrafe comparativa, fu per tutti Honoré de Balzac e tale è ancora oggi per noi, che lo conosciamo autore non solo nobile, ma immortale.
Lo racconta vivacemente, Stefen Zweig, nella biografia a lui dedicata (Castelvecchi, 2013): madre fedifraga, piagnucolosa e petulante, padre smargiasso e festaiolo reinventatosi borghese, il temerario Honoré fu un titano per forza di volontà, una fenice a dispetto di ogni evidenza, un ineguagliabile artefice. Ma, soprattutto, fu un bambino infelice; ossia, per dirla in termini di quadro generale, un bambino fortunato. Appena nato, i genitori lo cacciarono di casa consegnandolo per quattro anni alla moglie di un gendarme, poi lo affidarono a estranei col diritto di visita ai fratelli una volta alla settimana, infine, compiuti i sette anni, lo confinarono a Vendôme presso gli Oratoriani – cronaca di umiliazioni, aule studio simili a “ripostigli puzzolenti per ottanta corpi pigiati”, palettate di cuoio sulle mani epperò, a salvarlo, un’inestinguibile fame di lettura. “Leggendo il racconto della battaglia di Austerlitz,” scrive in Louis Lambert, delineando i contorni raggianti di una sinestesia rivelatrice, “ne ho veduti tutti gli incidenti: le salve dei cannoni, lo scalpitar dei cavalli, l’odore della polvere. Spettacolo terrificante quanto una pagina dell’Apocalisse.” Rientrato a casa e obbligato a impiegarsi come notaio, rifiuta la carriera e annuncia il suo progetto: diventare il più ricco e glorioso scrittore vivente. Trema sua madre (e in lei ogni plot che la piccola borghesia benpensante cui apparteneva le consentiva di immaginare per il giovane), vacilla suo padre che pur non è tipo da disdegnare le più ilari spacconate, e ne scaturisce un allontanamento coatto a Parigi col misero reddito di 4 franchi al giorno e due anni di tempo per dimostrare qualcosa – in giro si dirà che l’imbarazzante fannullone è in viaggio presso parenti.
Balzac si chiude invece in una maleodorante spelonca in rue Lesdiguières, campa di pane e latte, si cala nei propri abissi, ne emerge con una mediocrissima tragedia in versi, non si dà per vinto né tuttavia vince, scrive per la fabbrica editoriale Horace St-Aubin dieci romanzacci in un anno per mantenersi, si innamora di madame de Berny – pingue madre di nove figli che lo corrisponde, lo guida e ne fa un conoscitore –, si inventa un’attività editoriale e tipografica, fallisce, affonda tra i flutti angosciosi di un debito da 100.000 franchi, si fa coraggio, si reinventa, affronta il mostro, lo sconfigge e ne fa canto immortale. “In tutte le epoche della mia esistenza il mio coraggio è stato superiore alla mia sfortuna.” Come non eleggere un tale gigante a proprio indiscusso riferimento? Lo si potrebbe chiamare “manuale Balzac”, questo fenomenale canone di educazione sentimentale ed esistenziale, perché altro che curriculum, altro che piagnistei o antipiagnistei di maniera: contano di più un’infanzia infelice e una volontà indomabile. È questa la miscela grazie alla quale lo scrittore francese ha cambiato la storia non solo della letteratura, se perfino Engels disse che imparò di più leggendo la Commedia umana che tomi e tomi di bigi economisti.