Flannery O’ Connor sosteneva che scrivere “vuol dire conoscere la propria regione”. Nessuno vede tutto, ciascuno ha una propria finestra da cui affacciarsi sul mondo. Qual è – se c'è – la tua regione narrativa? Da dove nascono i tuoi romanzi? Che cosa vedi per prima cosa? Una scena, un dettaglio, un personaggio? E in particolar modo com’è nato questo tuo ultimo romanzo?
Non ho mai capito se scrivere significhi raccontare ciò che si sa o raccontare ciò che non si sa. Se sia un mezzo di locomozione verso l’ignoto, come un missile, o verso il già noto, come una bicicletta. Ci sono, senza dubbio, scrittori-missile e scrittori-bicicletta. Io, che scrittore sono? Mi chiedo: è giusto rinunciare al privilegio dell’immaginazione per il dovere della pertinenza? Non so, davvero, se possiedo una regione narrativa specifica, e non so dove sono dislocate le mie rampe di lancio. Ho ruote o reattori? Non so nemmeno se ho gittate lunghe come vorrei. I miei romanzi sono molto diversi e in modi diversi sono nati: un po’ a soprassalti e un po’ a correzioni progressive di mira e messa a fuoco; alcuni si sono affacciati mentre pensavo ad altro, altri sono il risultato di tenaci inseguimenti. La scrittura di alcuni ha avuto a che fare con l’intuito, più che con l’intelligenza. Con la pazienza, più che con il genio. Con la lucidatura vetri, più che con la chiarezza a priori. Di certo tra il romanzo finito e la prima immagine che mi si presenta (di solito è un personaggio con una caratteristica) pare non esserci un vero legame. Maggio splendeva – un romanzo storico/comico ambientato nella Roma del 1939 – è nato perché, risistemando la cantina, ho letto un racconto sulla vita di Mozart. Gli asini volano alto, un altro mio romanzo comico, perché soffrivo durante un inverno milanese assai grigio. I giorni non si scavalcano è nato perché ho conosciuto Leonard Bundu e avevo una voglia dannata di scrivere di boxe.
Già scrivere un romanzo storico è complesso, figuriamoci quando si decide di raccontare una persona vivente che conosci, ammiri, con cui dialoghi, con cui magari hai pranzato e riso. Come si fa a leggere tra le righe di una vita senza arrivare semplicemente ad una biografia o un panegirico?
Fronteggiando alcuni problemi pratici e di tono generale. Il più spinoso è ricondurre il gregge dei fatti all’ovile narrativo, cioè immettere un flusso disordinato in una rigida struttura. Infatti la vita non ha senso narrativo: i fatti si aggrovigliano in modo febbrile e poi si diradano desolatamente, i cerchi rimangono aperti, e solo grazie a sporadiche epifanie estemporanee siamo pervasi da una percezione di “senso generale”. Siamo, in altre parole, creature che soggiacciono. Però scrivere significa essere non creatura che soggiace, ma che dispone. E qui si trattava di disporre narrativamente la vita di un’altra persona. Credo che la lezione più grande che ho ricevuto scrivendo sia stata quella di dover innanzitutto ascoltare. Reimparare ad ascoltare. Quindi provare a leggere un uomo come fosse già un libro, provando a cogliere quei due o tre epicentri della sua vicenda personale. È stato, in altri termini, un atto a mezza strada tra prepotenza e obbedienza. Non è stato semplice. Con Leonard ci siamo anche un po’ scornati.
Il romanzo si apre in Africa, con un’esplosione di violenza, cieca, feroce, stupida. E sia in Africa che poi in Italia le aggressioni, le bravate contro gli altri e se stessi continuano, facendosi magari più sottili e “invisibili”, come la droga. Il pugilato si palesa, passo passo, non come un’altra forma di violenza, ma come una vera e propria alternativa. Si può dire che il tuo romanzo racconti come si faccia a limare, purificare, trasformare la propria forza, aguzzandola come la punta di uno spillo, indirizzandola verso una vera battaglia, dentro e fuori di noi, che non ci faccia impantanare nelle sabbie mobili della rovina?
Fin dall’inizio mi ero posto un obiettivo: non usare questo sport per allestire la Grande Allegoria. La qual terribile cosa piace smodatamente agli scrittori: entrano nel mondo del pugilato, ne sviscerano l’elemento mitico, ne tirano fuori un’Iliade. Tutto ok, ma io non sono Omero, e non volevo essere disonesto. A che pro, tanto enfatica postura? Mettermi in ghingheri retorici per raccontare, sotto le mentite spoglie di un'altra persona, un’ennesima versione di me stesso? In questo caso, poi, sarebbe stato uno spreco presuntuoso, dato che avevo a disposizione una persona assai interessante. Volevo raccontare la boxe ad altezza boxe. E la boxe si autogiustifica perfettamente, non ha bisogno di stampelle intellettuali – contiene già tutto. Pensa al bellissimo Città amara di John Huston. Il punto è: saper guardare, sapere cosa raccontare. Inoltre non volevo essere ipocrita sul tema della violenza. La boxe canalizza la violenza? Verissimo. Ma ha anche a che fare con la violenza. La violenza quando è bella.
“La boxe è come il jazz, che quanto meglio è fatta e meno piace. Vero, il pugilato non era una cosa semplice. Innanzitutto, non erano solo cazzotti, ma una marea di altre cose.” Anche la scrittura non è solo battere i tasti, ma una marea di altre cose? Quali sono state le sfide più belle e difficili dei tuoi romanzi?
Quando mi viene un’idea per un romanzo, provo una regressiva esaltazione. È proprio una gioia infantile, perché salirò su una giostra. Al contempo, però, so anche che quella giostra la dovrò guidare: è una sfida, ma una sfida che conduco come sempre con gioia, anche quando è faticosa. Qualcuno ha detto che scrivere è un ozio affaccendato. Direi anche: è una sofferenza divertente. Voglio porre l’accento su ‘divertente’ perché spesso leggo interviste di scrittori che gnaulano su quanto scrivere li faccia ammalare, contrire, ossessionare. Non sto dicendo che scrivere sia tuffarsi a capofitto nello zucchero filato, ma nemmeno conficcarsi schegge di vetro nell’avambraccio. Credo che tutta questa posa ginnasiale e dolorista – questo tedio, questa mancanza di gioia – emerga in molta letteratura italiana contemporanea, in pericolosa balia di una perniciosa sindrome da studenti del primo banco che levigano paroline ricercate e cullano squisiti patimenti. Non sopporto queste smancerie da vecchie sgualdrine grottescamente incipriate. Io scrivo perché mi fa schifosamente felice. Anche quando mi irrita. Anche quando dubito di me. Anche quando non capisco. Se sul ring senti la paura, è sano; se la paura ti paralizza, non è il tuo mestiere. Con la scrittura è lo stesso: mi attrae, temo il cimento, ma non vedo l’ora di averne uno.
Borges diceva che , in fondo, raccontiamo sempre alcune grandi storie: la città assediata, il viaggio verso casa, gli amanti divisi: pensi che le storie sul pugilato rientrino nel grande archetipo del dio che muore e risorge?
Ma anche nei tre sopracitati. Si combatte per liberarsi, si combatte per tornare a casa – sempre su pulmini sgangherati –, si combatte per una donna. F.X.Toole ha scritto cose bellissime sulla boxe. Lo sfidante contiene tutti gli archetipi e supera tutti gli archetipi, compresi quelli di Jack London. In quelle pagine si sente la puzza vera della palestra.
“Ma quando, dono degli dei, appare un bagliore, vivida luce si spande sugli umani e dolce è la vita” scriveva Pindaro dello sport agonistico, nelle Pitiche. Pensi sia la stessa esperienza che cerchi di indicare ed esprimere tu quando racconti che nel pugilato è possibile finalmente “sentirsi in possesso di se stessi”? Per questo tanta arte, in tante forme antiche e moderne, è tanto attratta da esso?
La boxe è tante cose. È paura e coraggio. Sangue e felicità. Ascesi e macelleria. È incollare il corpo alla mente. Sentire che la morte ti ha gettato una rapida occhiata, passando oltre. Fare una schivata di un millimetro, udire un pugno che sibila accanto al tuo orecchio e affonda innocuo nel vuoto alle tue spalle.
Talvolta narri un match con un’asciuttezza cronachistica, accelerando, a volta invece la narrazione si fa dettagliata, quasi colpo per colpo. Molti grandi narratori si sono paragonati con la "nobile arte", da Heinz a Mailer, da Hemingway a Lansdale. Quali sono le grandi sfide narrative nel raccontare un incontro di pugilato, specialmente visto che tu stesso tiri di boxe?
Le sfide narrative che valgono sempre. Per esempio, essere plastici. Io odio le scritture piatte, a cosa servono? A niente e a nessuno. Certo, saper raccontare l’azione non è facile, nemmeno incatenare il lettore per tre pagine consecutive di descrizione di gesti atletici. Bisogna raccontare in modo intelligente, con vivacità e ricchezza, e non essere mai profondi in modo frivolo. In generale, con Billy Wilder, direi che ho dieci comandamenti. Nove dicono: non annoierai il prossimo tuo.
Il decimo?
Meno avverbi!
Quali sono nella scrittura i principali difetti iniziali di cui scrollarsi di dosso, come nel pugilato? Da cosa un narratore esordiente si deve ripulire- negli esempi che hai presente- snellire, e dove, invece, secondo te, deve imparare a sporcarsi?
Bisogna ridurre al massimo la vanità. Perché sai cosa penso? Che qualunque difetto può essere un difetto m-o-r-t-a-l-e. E, ancora peggiore, la tentazione di innamorarsene. Si coccolano le proprie ricercate sciocchezzuole, ci si crogiola al suono dei propri gemiti, si scambiano i vezzi per “stile” e ci si convince di aver inventato un linguaggio. È terribile: si ricorre alla fumisteria e si cade nell’artificioso, e tutto per fuggire il peso del rendersi conto di avere uno sguardo debole, che non centra il punto. Al contrario, bisogna invece essere coraggiosi. Lavorare sodo. Io non amo la metà dei romanzi che ho scritto, ma mi devo sporcare con la mia stessa mediocrità, col mio stridulo falsetto, non voglio essere autoindulgente, o lo zelante caporale della mia penna. Ci vogliono anni. Bisogna imparare a dosare lo sforzo, cioè ad amministrarsi per tutta la durata di un romanzo. E come sempre, non bisogna scomporsi. E portar bene i colpi. Solo quelli che servono, precisi, rapidissimi. Bisogna scrivere con amore, con gioia. Punto.
Nel romanzo ci sono due grandi modelli, uno mitico, quasi favolistico, e uno invece carnale, vicino, estremamente concreto: il Bruce Lee dei film di arti marziali, e il maestro Bonci, l’altro grande sguardo che accompagna il cammino di Leonard. Talvolta chi ammiriamo e chi ci influenza sono persone molto diverse. Chi sono gli scrittori che ami di più? Sono gli stessi che hanno maggiormente influenzato la tua scrittura, oppure no?
Da anni ho un sospetto: davvero ci forma e ci influenza solo l’ottima letteratura? E quella brutta? Io, come tutti, venero una serie di scrittori. Mario Vargas Llosa, Mordecai Richler, Sergej Dovlatov. Charles Dickens, Mark Twain, Gerald Durrel. Luigi Meneghello, Raffaele La Capria, Mario Soldati. La letteratura russa è stata uno degli incontri fondamentali della mia vita, ma amo anche i racconti sugli zombie di Joe R. Lansdale, i più smodati Emilio Salgari, P.G. Wodehouse e Jerome K. Jerome in blocco, i romanzetti western di Louis L’Amour, biografie di ogni genere e tanti romanzi grossolani, raffazzonati e mal scritti, che mi hanno fatto capire sempre meglio cosa voglio quando leggo. E siccome quando scrivo cerco sempre di ricordarmi che lettore sono, mi piace pensare che abbiano esercitato la loro influenza anche sulla mia scrittura. E non posso dimenticare una persona: Alberto Rollo, editor Feltrinelli. Gli voglio davvero bene. La sua cultura, la sua arguzia, la sua eleganza: la mia università. Però non gli telefono mai. Non so perché. Sono uno stronzo? Forse, purtroppo, sono solo uno stronzo.
(Edoardo Rialti)