Da Orwell, inserto culturale de Il Riformista

Marzo 2013

Sabato scorso, in libreria, mi sono sentito male. La colpa è di Francesco Pacifico, ma non ce l’ho con lui. Ce l’ho con me.

I fatti: su Orwell è comparso a sua firma un pezzo dal titolo “Il generone della narrativa italiana: la lingua media sta diventando troppo media”, e al di là del fatto che io avrei messo un punto di domanda, dopo italiana, terminata la lettura mi sono precipitato in libreria preoccupato per me. E sono incappato in “Vent’anni che non dormo”, un mio romanzo del 2003. Assecondando il gioco di campionamento che Pacifico proponeva nell’articolo – dedicandosi cioè alla pesca casuale di frasi da un pugno di romanzi e “pesandone” la lingua – ho aperto il mio. Risultato? A tratti, il malessere. Questo per tre ragioni: in quel romanzo c’era un autore che cercava lo stile; in quel romanzo c’era uno scrittore che, anziché scrivere, rifletteva sullo stile; quel romanzo, in certi passaggi, si riduceva in gran parte a stile. Terrorizzato da me stesso, mi sono chiesto cosa mi fosse saltato in testa di così folle, dieci anni prima, da indurmi a una deplorevole emorragia come quella a pag.14: “Stralci di melanzane gli riempivano la bocca e venivano sommariamente condannati nello strapiombo della trachea, ingoiati vivi senza passare attraverso la magistratura molare.” Sorretto allo scaffale, ho pensato: non posso essere io. Ero stato davvero capace di scrivere quelle cose? A cosa o a chi serviva, quella lingua affatto media? Perché non solo non serviva a niente e a nessuno, ma di per sé non era nemmeno garanzia di nulla – e anzi, lo scrittore, dieci anni dopo, avrebbe voluto schiaffeggiarsi. Dopo essermi calmato, rientrato nella stessa libreria da cui ero fuggito e pescando qua e là da un paio di miei romanzi successivi, incorrevo in più rassicuranti periodi. Sollievo: dal 2004 ero guarito. Tuttavia, rincasando, non riuscivo a togliermi dalla testa una domanda dell’articolo di Pacifico: “Dove portare la mia lingua?” Di seguito, il bivio: “Boria tradizionalista o facili scorciatoie?” Dico la mia. Non credo che la lingua sia il problema. Forse pensare alla lingua in astratto e separatamente dal resto non ha senso, e anzi, è vero il contrario: cercare la lingua è un errore madornale. La lingua non si porta: dalla lingua ci si fa trovare. A guidarci devono essere le storie.

Così mi son chiesto: che storie abbiamo raccontato nei nostri romanzi? Perché secondo me, spesso, non abbiamo raccontato niente. Infatti la nostra lingua è stata tutto, il centro delle nostre domande e delle nostre risposte. Mi sono venuti in mente romanzi in cui la prosa aveva la meglio sul gusto del racconto, in cui il postulato stilistico intrappolava la pagina in un’implacabile cefalea, in cui le balze del tendaggio della sala da pranzo erano meglio del pranzo stesso: storie cieche che abbiamo creduto di illuminare con la nostra “scrittura”. Delirio di onnipotenza? Lo sospetto. Perché secondo me la lingua migliore, cioè l’unica possibile, è già dentro le storie. Tutto sta a saperle ascoltare. A tender l’orecchio ci diranno forte e chiaro come devono essere trattate. Noi dobbiamo avere fiducia, udito, e la volontà di non rifugiarci nella bravura o nella sciatteria, due forme della rinuncia a raccontare. “Cosa fare di fronte a un pubblico poco esigente?” si chiede a un certo punto Pacifico. Non saprei, dato che siamo noi, spesso, il pubblico poco esigente di noi stessi.

Dostoevskij non aveva un buon carattere. Tuonava contro i tipografi che gli correggevano gli errori e diceva che non erano errori: scriveva così perché ascoltava il popolo. Diceva che, di ogni personaggio, avrebbe saputo indicare anche l’abitazione, e condurvi chiunque. Diceva: “Io sono il popolo.” A volte ho l’impressone che noi, invece, siamo rimasti troppo tempo chiusi in casa. Ad accudirla, la nostra scrittura. A far moine allo specchio. Perché crogiolarci nel mito esangue dell’immacolatezza? Perché generare romanzi-nature-morte con lessico ansioso di prestazione? Abbiamo diviso i romanzi per categorie linguistiche e, come scolaretti, abbiamo voluto posizionarci in quella dei “bravi”. Fossimo stati meno bravi ci saremmo seduti certamente in ultima fila, ma almeno, da lì, avremmo sbirciato fuori dalla finestra – cosa che hanno fatto gli scrittori di genere, i quali, seppur concentrati tutti sullo stesso vetro, almeno guardavano qualcosa. Erogare commissari o ghirigori linguistici: raccontare è solo questo bivio? E perché ogni riflessione sulla scrittura prescinde quasi sempre dai lettori? Al contrario, una risposta possibile alla domanda: “Cosa fare della nostra lingua?”, secondo me, potrebbe essere: “Quel che ne ha fatto il nostro scrittore preferito.” La risposta è nel lettore che siamo, nel lettore che si è divertito (non è una colpa!) e ha avuto un brivido alla schiena. Trovare questa risposta, trovarla lì, per me è l’unico dovere. “Chi ci aiuterà a scrivere meglio?” Direi: la biblioteca di casa e, fuori di casa, una strada qualsiasi. Portano entrambe lontano.

“Non ho tempo da perdere con gli avverbi,” confessava Cechov in una lettera a Gorkij. Malamud ripeteva: “Storie, storie. Per me non esiste altro.” Eccole, due frasi che incornicerei. Perché ci ricordano che l’unica bussola è la forza salvifica delle storie, la loro fecondissima capacità di esplodere e di illuminare, oltre che di rispondere a tutte le nostre domande. Sì, proprio a tutte. Anche a quelle che non ci siamo fatti perché non ne siamo stati abbastanza intelligenti.