Il mio bar preferito è a Milano, si chiama Bar Tabacchi Caffè Jesi e presidia l’angolo tra via Lomellina angolo via Sismondi.
È un bel bar. Ai vetri, bruciati da anni di sole di periferia, sono incollati adesivi che sponsorizzano il Totocalcio e inoltre ci si può bere roba esotica tipo il liquore all’anice Piazza (bottiglia retrò, quadrata e bluastra), sempre che la tizia al bancone abbia voglia. Più che una barista, infatti, sembra una bidella, sia perché è vestita da bidella, sia perché si trascina con fatica, ti butta lì un saluto indolenzito e ogni cosa che fa è chiaramente un favore al mondo. Prima di metter su il caffè, infila guanti di lattice, fa rotolare sotto uno scroscio d’acqua un mazzetto di cucchiaini e qualche bicchiere, ma guardandosi bene dal lavarli come si deve, e a quel punto, sbadigliando e sbuffando, ti parcheggia sotto il muso un piattino fradicio su cui, forse, potrai sperare che arriverà il tuo “Che cavolo avevi ordinato?”
Il mio bar preferito, lo preferisco anche perché accadono cose come quella di qualche mattina fa.
Io sto bevendo un cappuccio e sfogliando un quotidiano di intrattenimento, quand’ecco che entra uno. Oltrepassa la soglia, e il bar tace per un paio di secondi. Poi scatta l’ovazione e lo accolgono come un eroe. Applaudono, fischiano, processione per andare a stringergli la mano. Lui gongola ma fa l’antidivo, lo schivo, l’indifferente al tumulto. Ringrazia, inarca il sopracciglio, si siede a un tavolo e tutti gli si fanno intorno. Con gesto alaindeloniano estrae una MS da una tasca interna del suo giubbo da pescatore di palude, accende, accavalla e comincia a raccontare con toni da epopea… della sua prostata. Dapprima ne riferisce con gergo tecnico e dovizia di dettagli, poi vieppiù spiritosamente, quindi scivola nel sarcastico e inanella aneddoti di straziante comicità, uno via l’altro, con formule, ne sono certo, provate in casa prima di presentarsi all’esigente seppur non pagante platea dello Jesi. Ha capelli lustri di brillantina e il vestito della prima è: camicia a maniche corte, il suddetto giubbo, pantaloni beige, calze bianche e zoccoli di legno rossi.
È lì che si sta esibendo, quando entra una signora pienotta che scruta l’anomalo mucchio, soprassalta, riconosce il marito tra i commentatori della prostata, poggia a terra una sportina del fruttivendolo e raglia: “Casimiiiro, ma cosa ci fai qui? Vieni subito a casa dopo che hai fatto la spesa, che sennò va a finire che te la rubano come ieri.” Quindi si volta verso di me e mi fa: “Ci han fregato un kg di pomodori a ‘sto scemo. Lo convinca lei, per favore, io adesso ho la pettinatrice.”
Il cesso del mio bar preferito sembra una spiaggia di mare, perché la segatura è così spessa che sembra di stare a Rimini.
Ma soprattutto (e qui la questione comincia a scottare) c’è un separé. Di finte piante verdi. E lì dietro – dietro –, cinque tavoli professionali.
In questo luogo toccato dal segreto, l’atmosfera è enigmatica.
È il classico luogo per iniziati, ossia: se oltrepassi le colonne d’Ercole delle finte piante verdi, ti senti a disagio. Hai la sensazione di interrompere qualcosa, di violare un’intimità, di sporcare un silenzio.
Vieni guardato, soppesato e vagliato con sguardi interrogativi.
Cosa accade?
Accade che lì, in questa zona franca, in questa insenatura a un passo dal cesso riminese, si bevono grappini fuori dal controllo di mogli che o sbucano all’improvviso – da lì le vedi e hai tutto il tempo di occultare l’anice Piazza – o telefonano cercando il consorte sparito da due ore con la spesa; in questo caso risponde la bidella-barista, e se sei oltre le piante verdi, vuol dire che non ci sei per nessuno.
Lì, in questo luogo segreto, si favoleggia di prostate, di figli che non ci sono, di Mussolini e di Berlusconi. Lì si fuma anche se il dottore ha detto no. Lì si commenta la politica, si rifà la guerra, si dice la verità sulle donne. E poi si pontifica sui ricordi, e da certi ponti ci si butta giù, a capofitto in un Prosecco.
Un mese fa, per esempio. C’era uno con gli occhi lucidi e due coetanei intorno che gli lisciavano la spalla con dolcezza improfessionale, da sentimentali non praticanti. Tutto è stato risolto grazie a una sambuca con la mosca e a un proverbio dialettale che suonava così: se un giovane sapesse, se un vecchio potesse…
Il mio bar preferito mi ricorda mio nonno: anche lui andava a bere di nascosto da mia nonna.
Quando è stato scoperto, ha detto (capolavoro assoluto) che lo avevano costretto con la forza a iscriversi al terribile Club della Caraffina.
Mio nonno lavorava alla Sip e mia nonna racconta con orgoglio che era partito operaio in bicicletta ed era andato in pensione impiegato con cravatta e una 128 bianca.
Mio nonno, trovandosi disoccupato, nel Dopoguerra si era inventato di saper riparare le radio. Faceva così: innanzitutto non prometteva niente; aveva letto su alcune dispense Radio Elettra un po’ di terminologia a effetto e la usava con disinvoltura davanti al proprietario dell’apparecchio. Quindi si portava a casa l’apparecchio e passava due giorni a prenderlo a sberle e a imprecarlo. Poi lo smontava e si ficcava come al solito in guai serissimi perché non lo sapeva più rimontare. Allora chiedeva a mio padre, che all’epoca aveva sei anni. Ma ovviamente non ne cavava nulla, per cui si incazzava, gragnuole di bestemmie, e andava a riflettere su un frizzantino al suo bar Jesi. Infine cedeva e riconsegnava la radio con uno sguardo luttuoso. Diceva: “Niente da fare, mi spiace. Ho fatto il possibile ma è proprio danneggiata. Se però volesse pagarmi almeno il disturbo…”
E il disturbo erano: due uova, un mezzo litro di Chiaretto del Garda, un mucchietto di zucchero in carta di giornale.
E così via, da capo tutti i giorni, per sei mesi. Fino a saturare il mercato raccontando la stessa favola a tutto il quartiere.
Il Club della Caraffina era un club impalpabile e ondivago, costituito da membri il cui nome cambiava ogni volta, a seconda delle intenzioni di mia nonna, che spesso prendeva in mano il telefono per dirgliene quattro, a questi stronzi.
Mio nonno lasciava fare, e degli stronzi succitati forniva generalità incerte e incoerenti, numeri di telefono incompleti, indirizzi di domicili che esistevano e non esistevano. L’oscuro club senza apparenti responsabili consisteva in un cartellone affisso al muro del bar: in alto, in orizzontale, le sigle che corrispondevano alle iniziali dei soprannomi degli aderenti; allineate a sinistra, le date del calendario del mese da riempire con una X rossa. Il meccanismo era inflessibile: saltare una bevuta (composta di un misterioso numero di calici noto solo agli aderenti) avrebbe comportato il pagamento di una multa dall’importo ben più alto del numero dei calici che andavano scolati. Ragion per cui, quando mia nonna gli diceva: “Mario, ti prego, lascia stare il bar, butti via i soldi e non ne abbiamo…” lui metteva su un broncio sfiancato, drammatico, sacrificale, e rispondeva che al bar, lui, non ci andava volentieri. Era costretto, più che altro. E aggiungeva, come un perseguitato dagli usurai: “Mi hanno incastrato: mi conviene di più bere, che non bere.”
“Ma chi ti ha incastrato? Chi?”
“Loro.”
“Loro?”
E annuiva. “Essi.”
Eccolo qua, mio nonno: Mario Archetti, statura di cm 160, 55 kg di peso, tessera del Pci, Gran Caraffa, l’uomo che ci ha insegnato a ridere. Volonteroso, timido, allegro, inventivo, conquistatore dell’Albania per caso, faro di bicicletta nella nebbia, Fiat 128 col registratore Geloso poggiato sul pianale posteriore, Albano, “Quando il sole tornerà”, e canna dell’acqua per lavarla tutte le domeniche; uno che non sgridava troppo i figli, perché, come dice mia nonna, “aveva paura di disturbarli”.
Nato a Brescia il 25 ottobre 1920, è morto, sempre a Brescia, il primo aprile 1993. Domani compirà 15 anni di latitanza. Io non vado mai a trovarlo al cimitero. Non mi va. So che è stupido, o molto peggio, poetico, ma non ho perso la speranza. Mi aspetto di vederlo sbucare dalla porta, una sera, con una scusa delle sue, una frasetta farfugliata male per via dei calicini, e una radio sottobraccio, una radio complicata che non è riuscito a riparare e che ha dovuto consegnare un po’ fuori mano, dato che il quartiere sapeva di lui. O magari mentre, barcollando, ci spiega che ha dovuto partecipare a una partita a carte andata un po’ per le lunghe. O che ne so, per colpa di un Club della Caraffina. Sì, un nuovo e più efferato Club della Caraffina che non lo voleva liberare fino a che non avesse bevuto quindici anni e un giorno di anice Piazza.
Ma poi mi rendo conto, e lo so che non tonerà. Lo so che non ha niente in serbo per noi.
Mia nonna, il giorno in cui è morto, guardandolo nella bara mentre i parenti cominciavano ad arrivare alla spicciolata, gli ha fatto il regalo che a mio nonno sarebbe piaciuto di più: una battuta – una semplice battuta.
Mi ha guardato con gli occhi pesti, ha scosso la testa e ha detto: “Guarda in che modo se ne va questo qui… Il primo di aprile. Roba da vergognarsi. Ma questo, puoi giurarci, è l’ultimo scherzo che mi fa.”