Li avete già individuati? Cortei di suggestionati in Birkenstock stanno prendendo possesso della Liguria! Facilissimo riconoscerli: caracollano tra baie ed eremi, cantilenano versi sul bordo di fatali strapiombi, s’imbambolano in estasi panica e contemplano il palpitare lontano del mare, immersi fino ai marsupi nel sortilegio montaliano. Un comunicato Ansa Viaggi-Arte-Bellezza del primo giugno, del resto, avverte: “Esistono luoghi che hanno avuto la fortuna di eternarsi attraverso le parole e le immagini di letterati e artisti: Monterosso e le Cinque Terre ne sono un esempio.” Così, fino al 20 ottobre, grazie alla collaborazione dell’Ente Parco con la Società Dante Alighieri, sarà possibile “ripercorrere le tracce di uno dei grandi poeti del ‘900, il premio Nobel Eugenio Montale. Complice un contesto naturale e paesaggistico potente, il viaggiatore attento potrà scoprire un ambiente in gran parte ancora intatto e cristallizzato nelle tele di Telemaco Signorini. E immergersi, attraverso la chiave di lettura della poesia, in percorsi naturalistici e letterari, nel luogo dell’anima del grande poeta”. Sarà un percorso di “agricoltura, paesaggio e cucina letteraria, tra suggestioni di mare, di terra e di macchia”, una trasumanante anabasi “tra i prodigiosi limoni montaliani” con focaccia alle cipolle e Sciacchetrà.
Chiaro, no? La poesia sarà ovunque, meno che lì. E tralasciando di analizzare la buffa lingua per semicolti in cui è stato redatto tanto squisito pistolotto, verrebbe voglia di rivolgersi direttamente a questi plotoni di passivi-aggressivi assetati di Grande Bellezza, a questi tracannatori di Poesia&Paesaggio, a questi ceti medi podistico-lirici che poco o nulla leggono, e dir loro: andate pure, ma non contate su di noi dispoetici. Perché mentre vi verranno comminate “letture ragionate di versi montaliani nei luoghi in cui sono stati scritti Ossi di seppia”, a noi aridi pungerà vaghezza di festeggiare un formidabile saggetto di Gombrowicz intitolato “Contro i poeti” che compie giusto cinquant’anni. Lo festeggeremo perché li porta benissimo. Lo festeggeremo perché costò all’autore una furente lapidazione da parte dei suggestionati in Birkenstock dell’epoca.
“La tesi del mio saggio è che quasi nessuno ama la poesia e che il mondo della poesia in versi è un mondo falso e fittizio. Eccomi qui, a dichiarare non solo che le poesie non mi piacciono, ma addirittura mi annoiano.” Witold Gombrowicz – uno dei più grandi scrittori del Novecento – nacque nel 1904 in Polonia e la abbandonò un mese prima dello scoppio della guerra. Approdò in Argentina (“coda di pesce che si bagna nel Polo Sud”), ci visse ventitré anni e rientrò in Europa solo nel 1963. Beffardo clown anti-Sartre in perpetua lotta contro la Forma, fu il fulmine che squarciò il ciel sereno dei dogmi letterari: grande odiatore di Parigi, dei musei e delle cantilene intellettuali, mai sopportò di soccombere all’autorità indiscussa del sublime-a-tavolino e mai rifiutò i corpo a corpo col significato profondo dell’arte, o meglio, col problema della nostra convivenza con l’arte, tema centrale anche di questo saggio. “Perché non riesco a sopportare il canto monotono della poesia, sempre ugualmente elevato? Come mai le rime mi fanno venire sonno? Come mai quella Bellezza mi pare così poco attraente? Da un parte le centinaia di persone che adorano la poesia, i geni eccelsi e i loro versi. Dall’altra io, di fronte a tutta questa montagna di gloria, col sospetto che la messa poetica si celebri nel vuoto.”
L’analisi è spietata. Gombrowicz sostiene che ciò che stanca, nella poesia, è l’eccesso: di poesia, di termini nobili, di metafore, di sublimazione e di epurazione di ogni elemento antipoetico che rende le poesie prodotti chimici e non prodotti di relazione col mondo. “I cantori si moltiplicano” – constata – “e sono costretti ad assumere un atteggiamento da cantore, così un cantore stimola l’altro, e insieme si incitano a vicenda a una sempre maggiore immedesimazione nel canto”. Il risultato? Deliri competitivi di pura Forma, linguaggi rituali, e un momentaneo volo poetico trasformato in programma al punto che il poeta non può più esprimere se stesso perché deve esprimere la Poesia. “Si direbbe che per noi la Forma rappresenti un valore in sé, indipendentemente da quanto ci arricchisca o ci impoverisca” – prosegue lo scrittore – “al punto da farci dimenticare che nessun uomo è un poeta, che in ogni poeta vive un non poeta, e che l’uomo è qualcosa di più vasto del poeta.” Ma il poeta si prende tutto: convinto della propria Missione, sbraita, strepita e imperversa nel vuoto. “Non pago che gli altri cadano in ginocchio davanti a lui, cade in ginocchio davanti a se stesso.” (E qui vien da pensare all’iniziativa ligure. C’è da augurarsi che i partecipanti, seppur squassati dalla sovreccitazione, prestino attenzione: i percorsi poetici saranno costellati di burroni, e cadi in ginocchio di qua, cadi in ginocchio di là, è un attimo cadere per sempre.) Nell’ultima parte del saggio gombrowicziano prevalgono i ricordi di sfinimento – “quante volte mi è capitato di assistere a quelle spaventose sessioni in cui ti snocciolano una poesia dietro l’altra…” – e la certezza che la via d’uscita sarebbe farla finita per sempre con l’idea che il bello è bello per decreto. L’arte ci affascina? L’arte ci dà piacere? Balle, tuona Gombrowicz! “L’arte ci affascina fino a un certo punto. Non proviamo piacere, cerchiamo solo di provarne. Non la capiamo: cerchiamo solo di capirla.”
Detto questo, non volevamo rovinare la festa ai suggestionati montaliani. E a parziale risarcimento segnaliamo loro una ghiottoneria: tra un osso di seppia e l’altro, il comunicato riporta che ci saranno “numerose emergenze naturalistiche da evidenziare”. Poesia e allarme, dunque: il massimo! La pietanza ideale per il moralista in gita culturale. E più gustosa adesso che si è insediato un orrido governo di illetterati. Vien quasi voglia di ringraziare. Sarà una grande stagione indignazionista.